Trombofilia-Trombosi

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    LINEE GUIDA PER LO SCREENING DEI
    PAZIENTI TROMBOFILICI
    Armando Tripodi
    Centro Emofilia e Trombosi "A. Bianchi Bonomi",
    Istituto di Medicina Interna, Università e IRCCS - Ospedale
    Maggiore, Milano.
    La fonte di queste linee guida una bozza della SISET (1999)
    attualmente in fase dicorrezione e non ancora sottoposta a
    diffusione
    INTRODUZIONE
    La trombosi è un fenomeno multifattoriale dalla patogenesi
    complessa. È, pertanto, difficile individuare in modo semplice e
    schematico le cause che la determinano. In queste linee guida
    saranno discussi i fattori di rischio più comuni di trombosi
    venosa ed arteriosa e i test di laboratorio utili per lo studio del
    paziente trombofilico.
    Pur non potento separare nettamente la trombosi arteriosa da
    quella venosa, alcune evidenze fanno ritenere che la loro
    patogenesi sia diversa. Sulla base di tali considerazioni è
    giustificato un diverso approccio per lo studio di laboratorio.
    TROMBOSI VENOSA
    La migliore comprensione dei meccanismi di regolazione
    dell'emostasi e le indagini di laboratorio eseguite su migliaia di
    pazienti trombofilici, hanno consentito di stabilire la relazione fra
    parametri emostatici e trombosi venosa (1, 2). I deficit
    congeniti dei meccanismi degli anticoagulanti naturali
    predispongono il soggetto portatore ad un aumentato rischio di
    trombosi venosa. L'iperprotrombinemia sostenuta da una
    mutazione nel gene della protrombina è associata ad
    aumentato rischio trombotico. Un altro fattore di rischio acquisito
    per trombosi venosa (ma anche arteriosa) è la presenza di
    anticorpi antifosfolipidi. L'iperomocisteinemia moderata, in passato
    nota come fattore di rischio di trombosi arteriosa è oggi
    riconosciuta anche come fattore di rischio di trombosi venosa.
    La ricerca mirata dei soli deficit congeniti dei sistemi degli
    anticoagulanti naturali su soggetti con precedente storia
    trombotica, particolarmente se in età giovanile (meno di 50 anni)
    e dopo esclusione dei fattori di rischio acquisiti di più comune
    evenienza (ad es. neoplasie), potrebbe spiegare la causa della
    trombosi in più della metà dei soggetti. Lo screening esteso ai
    membri della famiglia del probando, potrebbe inoltre, identificare
    quei soggetti ancora asintomatici, ma portatori del difetto, che
    più di altri potrebbero giovarsi delle misure profilattiche in
    situazioni a rischio (interventi chirurgici, gravidanze,
    contraccettivi orali, ecc.). È, quindi, del tutto evidente come una
    strategia concertata fra il clinico, che seleziona i pazienti più
    idonei a giovarsi dello screening e lo specialista di laboratorio di
    emostasi che allestisce ed esegue i test più appropriati, sia il
    requisito essenziale per la razionalizzazione della spesa e l'uso
    appropriato delle scarse risorse oramai disponibili.
    Difetti congeniti dell'emostasi associati a trombosi venosa
    Sono tutti difetti che si trasmettono con tratto autosomico
    dominante.
    Anticoagulanti naturali . I soggetti con carenza congenita anche
    di uno solo degli anticoagulanti naturali, anche se a livelli del
    50% della norma, sviluppano con maggiore frequenza trombosi
    venose; molto rare le trombosi arteriose. I difetti congeniti di
    antitrombina, proteina C e proteina S sono complessivamente
    responsabili del 15-20% degli episodi trombotici in soggetti
    giovani (meno di 50 anni). A causa della incompleta penetranza
    dei difetti, non tutti gli individui carenti sviluppano la
    trombosi. La comparsa dei sintomi è correlata con l'età. La
    probabilità è bassa al di sotto dei 20 anni e diventa
    significativamente elevata al di sopra dei 50. Circa la metà dei
    pazienti sviluppano la trombosi spontaneamente, la restante
    parte in concomitanza di fattori scatenanti (gravidanza, traumi,
    interventi chirurgici, o uso di contraccettivi orali). Per quanto
    riguarda l'antitrombina, le varianti che si esprimono con un
    difetto di legame per l'eparina presentano, rispetto alle
    varianti con difetto di legame per le proteasi seriniche, una
    minore incidenza di eventi trombotici. Queste osservazioni
    trovano riscontro nel fatto che le uniche famiglie finora
    descritte con membri affetti da carenza omozigote presentano un
    difetto di legame per l'eparina. È probabile che la carenza
    omozigote nelle altre varianti a maggior rischio trombotico non
    sia compatibile con la vita. Per quanto riguarda la proteina C e la
    proteina S sono state descritte anche carenze omozigoti, con
    livelli estremamente ridotti di attività funzionale (anche meno del
    5%) e con sintomi trombotici che possono comparire in maniera
    drammatica subito dopo la nascita ("purpura fulminans") e avere
    anche decorso fatale.
    Resistenza alla proteina C attivata .
    Se al plasma umano normale si aggiungono concentrazioni
    crescenti di proteina C attivata, si assiste ad un prolungamento
    proporzionale del tempo di coagulazione (ad esempio il tempo di
    tromboplastina parziale attivato, APTT), come conseguenza
    dell'inattivazione dei Fattori Va e VIIIa. Esistono soggetti il cui
    tempo di coagulazione, dopo aggiunta in vitro di proteina C
    attivata, non si prolunga adeguatamente (3). Responsabile di
    tale anomalia, denominata resistenza alla proteina C attivata, è
    nella stragrande maggioranza dei casi (più del 90%) una
    mutazione nel gene del Fattore V (Fattore V Leiden), che
    comporta una sostituzione amminoacidica nella proteina matura
    (4). Tale mutazione coinvolge uno dei siti dove il Fattore Va viene
    inattivato dalla proteina C attivata. Il Fattore Va mutato mantiene
    inalterata la propria attività procoagulante, ma resiste alla
    inattivazione, determinando nei soggetti portatori uno stato di
    ipercoagulabilità con aumentato rischio di trombosi venosa (5,
    6). La resistenza alla proteina C attivata, sostenuta dalla
    mutazione del Fattore V Leiden, rappresenta la causa più
    frequente di trombosi eredofamiliare finora identificata. Il difetto
    ha una prevalenza nella popolazione trombofilica del 20-60% (5,
    7) a seconda della selezione della casistica, ed è presente nella
    popolazione normale con una prevalenza variabilie dal 3 al 15%
    (8). Si può presentare anche allo stato omozigote e, considerata
    la sua alta prevalenza nella popolazione, si associa con una certa
    frequenza ad altre carenze congenite (antitrombina, proteina C,
    proteina S), o difetti acquisiti (anticorpi antifosfolipidi,
    iperomocisteinemia, ecc.), aumentando così il rischio di trombosi
    nei soggetti portatori (9-12).
    Mutazione 20210A della protrombina.
    Recentememente è stata identificata un'ulteriore mutazione
    protrombotica a carico del gene per la protrombina (20210A),
    che si esprime fenotipicamente con un aumento dell'attività della
    protrombina nel plasma (13). La prevalenza del difetto nella
    popolazione trombofilica è del 10-18% a seconda della selezione
    della casistica e del 1% nella popolazione generale.
    Apparentemente la mutazione da sola conferisce un rischio
    relativo abbastanza modesto, ma l'associazione con altri difetti
    potrebbe incrementarlo.
    Quali metodi per identificare i difetti congeniti
    I difetti congeniti (antitrombina, proteina C/S, Fattore V Leiden e
    mutazione della protrombina) potrebbero essere identificati
    mediante l'analisi del DNA. Essa sarebbe preferibile rispetto
    alla misura sul plasma perché darebbe una risposta univoca. In
    pratica ciò è fattibile solo in alcuni casi particolari (ad es. Fattore
    V Leiden e mutazione della protrombina), dove si conosce con
    certezza la localizzazione della mutazione. In tutti gli altri casi,
    ci si deve accontentare di documentare la manifestazione
    fenotipica studiando il plasma. Là dove è possibile, lo screening di
    laboratorio deve essere eseguito utilizzando esclusivamente
    metodi funzionali (1, 14). Esistono, infatti, numerose carenze
    congenite sostenute dalla presenza di molecole disfunzionali degli
    anticoagulanti naturali. In questi casi la concentrazione antigenica
    della proteina è normale, ed è solo la sua attività funzionale che è
    ridotta.
    Per l'antitrombina, i metodi funzionali che misurano l'attività
    inibitoria esercitata nei riguardi della trombina o del Fattore Xa
    in presenza di eparina, sono idonei allo screening di laboratorio.
    Per la proteina C numerosi sono i metodi funzionali finora descritti
    ed esistono kit commerciali di semplice esecuzione. Essi si
    basano sulla misura dell'attività anticoagulante della proteina C
    attivata nei riguardi dei suoi substrati naturali (Fattore VIIIa e
    Va), o sull'attività amidolitica che la proteina C attivata esercita
    nei riguardi di piccoli substrati artificiali (substrati cromogenici).
    In generale le due attività (anticoagulante e amidolitica) sono fra
    loro in accordo, ma sono stati descritti pazienti con attività
    discrepanti. Per lo screening del paziente trombofilico, si
    consiglia l'uso dei metodi amidolitici, perchè di più semplice
    esecuzione e meno soggetti ad interferenze.
    La proteina S circola nel plasma sotto due forme: libera per il
    40% e legata ad una proteina regolatrice del complemento, C4bbinding
    protein (C4bBP) per il 60%. Le due forme sono fra loro in
    equilibrio e solo quella libera è funzionalmente attiva. In
    conseguenza di questa peculiare distribuzione, la carenza di
    proteina S può presentarsi almeno sotto tre forme distinte.
    Deficit totale della proteina, deficit della sola forma libera e
    presenza di proteina S disfunzionale. Tutto questo complica la
    diagnosi di laboratorio. Il metodo funzionale, esplora le capacità
    cofattoriali della proteina S nei riguardi della proteina C attivata e
    sarebbe quindi da solo in grado di identificare tutte le forme di
    carenza. Tuttavia, esso è influenzato dalla presenza della
    mutazione del Fattore V Leiden e questo ne limita l'uso. Allo stato
    attuale, è consigliabile basare la diagnosi sulla misura antigenica
    della proteina S libera, che si può effettuare mediante anticorpi
    monoclonali che riconoscono la sola forma libera, o mediante
    anticorpi policlonali, dopo aver eliminato dal plasma la forma
    legata mediante precipitazione selettiva con polietilenglicole
    (PEG).
    Per la resistenza alla proteina C attivata la diagnosi di laboratorio
    si esegue con test funzionali su plasma che valutano l'entità del
    prolungamento del tempo di coagulazione dopo aggiunta di
    proteina C attivata. La sensibilità di questi metodi nello svelare il
    difetto sostenuto dalla mutazione del Fattore V Leiden, è vicina al
    100%, non cosi'la loro specificità, che si avvicina al 100% solo
    quando il plasma del paziente viene diluito in plasma carente di
    Fattore V prima dell'esecuzione del test (15). All'identificazione di
    un soggetto resistente è sempre buona norma far seguire la
    conferma con il test genetico. L'alternativa di eseguire l'analisi
    genetica direttamente nella fase di screening, sebbene
    tecnicamente praticabile, comporta costi relativamente elevati e
    non sempre giustificabili.
    La presenza della mutazione nel gene della protrombina si associa
    ad aumentati livelli di protrombina nel plasma, tuttavia a causa
    della notevole sovvrapposizione di valori fra portatori e non
    portatori, la sola misura dei livelli plasmatici della protrombina
    non è idonea ad identificare i soggetti portatori della mutazione.
    Attualmente l'analisi del DNA sembra l'unica via praticabile.
    Sindrome da Anticorpi Antifosfolipidi
    Questa sindrome è sostenuta dalla presenza nel plasma di
    anticorpi diretti contro i fosfolipidi anionici, o contro i complessi
    di alcune proteine (proteina C, proteina S, protrombina, beta2-
    glicoproteina I) e i fosfolipidi (16). In un certo numero di pazienti
    la presenza degli anticorpi è associata all'insorgenza di sintomi
    trombotici venosi e/o arteriosi, aborti ripetuti e piastrinopenia. La
    diagnosi di laboratorio può essere effettuata mediante metodi
    diretti che evidenziano la presenza degli anticorpi in fase solida,
    usando come antigene catturante la cardiolipina (ricerca degli
    anticorpi anticardiolipina) e mediante metodi indiretti che
    sfruttano l'interferenza che gli anticorpi hanno sui test classici
    della coagulazione dipendenti dai fosfolipidi (ricerca
    dell'anticoagulante lupico, LA). A causa della impossibilità di
    identificare con un singolo test le diverse classi di LA, i comitati di
    standardizzazione, hanno stabilito una strategia diagnostica
    basata su tre criteri principali (17). Il primo criterio impone che
    uno (o più) dei test fosfolipidi-dipendenti sia prolungato oltre i
    limiti della norma (test di screening). Bisogna poi dimostrare che
    il prolungamento sia effettivamente dovuto alla presenza di un
    anticoagulante circolante (test della miscela per il secondo
    criterio). Il terzo criterio impone di provare che l'inibitore sia
    diretto contro i fosfolipidi,(test di conferma). In teoria, qualsiasi
    test fosfolipide-dipendente, che esplori globalmente o in parte la
    cascata coagulatoria e sia eseguito su plasma filtrato, sarebbe
    idoneo a svelare la presenza del LA. In pratica, il test più usato
    per ragioni storiche e di comodità è l'APTT, che non è però
    idoneo allo screening, a causa della sua scarsa sensibilità. Test
    più sensibili sono il tempo di coagulazione al caolino (KCT) e il
    test al veleno di vipera Russell diluito (dRVVT). Il test della
    miscela si esegue con qualunque dei test di screening
    precedentemente esaminati e consiste nella ripetizione del
    test su una miscela plasma paziente/plasma normale. La
    persistenza del prolungamento del tempo di coagulazione
    eseguito sulla miscela, suggerisce la presenza di un
    anticoagulante circolante.
    I test di conferma sono per lo più basati sull'incremento, o la
    diminuzione della concentrazione dei fosfolipidi, o sull'uso di
    fosfolipidi a conformazione particolare. Il tempo di coagulazione
    di un test fosfolipide-dipendente, prolungato per la presenza del
    LA, si accorcia sensibilmente fino a correggere quasi
    completamente il difetto, se ripetuto aumentando la
    concentrazione dei fosfolipidi. Al contrario, il test si
    prolungherà se viene diminuita la concentrazione dei fosfolipidi.
    Esistono numerosi test di conferma, ed esistono diverse fonti
    possibili di fosfolipidi. Fra i test di conferma più usati ricordiamo
    l'APTT con aggiunta di lisato piastrinico quale fonte di fosfolipidi.
    Il test di conferma può anche essere eseguito con il dRVVT con
    aggiunta di fosfolipidi concentrati. Anche il tempo di
    protrombina (PT), se eseguito con tromboplastina
    opportunamente diluita, si può considerare
    nell'armamentario del laboratorio per la diagnostica del LA.
    L'uso di silice micronizzata in combinazione con fosfolpidi a
    bassa concentrazione può essere un buon sostituto del KCT nella
    procedura di screening. La ripetizione del test con fosfolipidi a più
    alta concentrazione consente di disporre di un test di conferma
    facilmente automatizzabile e di semplice esecuzione. Infine, fra
    le procedure di conferma di più recente introduzione bisogna
    ricordare l'APTT eseguito mediante fosfolipidi a conformazione
    esagonale. Quest'ultima conformazione renderebbe i fosfolipidi
    più disponibili a legare il LA che verrebbe, pertanto, riconosciuto
    con una maggiore sensibilità e specificità. Tutte le procedure di
    conferma non hanno risolto definitivamente il problema della
    specificità. False positività in plasmi con inibitori diretti contro
    il Fattore V o VIII sono purtroppo di frequente riscontro con
    qualunque delle procedure sopra ricordate. La storia clinica
    del paziente, che sarà evidentemente di tipo emorragico in caso
    di inibitore diretto contro il Fattore V o VIII, aiuterà a risolvere
    eventuali dubbi. La presenza di anticorpi anticardiolipina,
    rivelati in fase solida, non deve essere considerato un criterio di
    conferma per il LA. Infatti, non è infrequente che le due
    positività non coesistano nello stesso paziente.
    Iperomocisteinemia
    L'omocisteina è un prodotto del catabolismo degli amminoacidi
    solforati (metionina) (18). Essa è presente nel plasma sotto
    varie forme che possono circolare libere o legate alle proteine;
    raggiungono una concentrazione nel normale di 5-15 umol/L e
    vengono globalmente denominate omocisteina totale. Esistono
    situazioni congenite o acquisite che portano all'accumulo nel
    plasma di omocisteina. Fra queste la più importante è la
    carenza congenita di cistationina-beta-sintetasi, che allo stato
    omozigote può portare all'accumulo di livelli del metabolita
    superiori a 100 umol/L. Il difetto allo stato omozigote ha una
    prevalenza nella popolazione di circa 1:200mila-1:300mila e
    determina nei soggetti portatori la sindrome classica denominata
    omocistinuria, caratterizzata, fra l'altro, dall'insorgenza precoce di
    malattie cardiovascolari e tromboemboliche.
    Forme meno gravi di iperomocisteinemia possono essere di
    frequente riscontro in soggetti affetti da un difetto congenito della
    metilen-tetra-idro-folato-reduttasi (MTHFR), che rappresenta
    un'altra via metabolica dell'omocisteina. Le forme più frequenti di
    iperomocisteinemia acquisita sono per lo più secondarie a deficit
    di folati e vitamina B 12 . Studi caso-controllo hanno dimostrato
    come anche l'iperomocisteinemia moderata possa essere causa di
    insorgenza di trombosi arteriosa (ictus, infarto del miocardio e
    trombosi arteriose periferiche). Recentemente è stato dimostrato
    come l'iperomocisteinemia moderata sia associata con una certa
    frequenza anche all'insorgenza di trombosi venosa. La diagnosi
    di laboratorio dell'iperomocisteinemia è basata sulla misura
    della concentrazione plasmatica totale del metabolita mediante
    cromatografia ad alta pressione. La diagnosi non comporta
    particolari problemi nei soggetti omozigoti, mentre negli
    eterozigoti la misura dei livelli di metabolita 4 ore dopo un carico
    orale di metionina può migliorare la capacità diagnostica del test.
    TROMBOSI ARTERIOSA
    Nonostante le piastrine giochino un ruolo importante nella
    formazione del trombo arterioso, il valore predittivo dei test di
    aggregazione piastrinica in vitro nella trombosi arteriosa è
    praticamente inesistente (19) ed è quindi inutile eseguire test di
    aggregazione piastrinica in soggetti trombofilici. Al contrario studi
    prospettici eseguiti negli ultimi anni hanno documentato il valore
    predittivo dell'iperfibrinogenemia e dell'aumento del Fattore VII
    nella cardiopatia ischemica conferendo una precisa rilevanza
    epidemiologica al concetto di "ipercoagulabilità" (20). Pertanto, i
    dosaggi di questi due fattori dovrebbero essere inclusi nei profili
    di valutazione del rischio trombotico arterioso. Per quanto
    riguarda i loro metodi di misura, gli studi, soprattutto quelli per
    il fibrinogeno, hanno usato metodi assai diversi fra loro. Questo,
    se da una parte dà maggiore rilevanza al concetto della
    iperfibrinogenemia come fattore di rischio, visto che tutti gli
    studi seppur con metodi diversi ne hanno confermato la
    predittività, dall'altro ha creato qualche confusione sulla scelta dei
    metodi e sui livelli di allarme. L'opinione corrente è che il metodo
    più idoneo sia il metodo funzionale che esplora la coagulabilità
    del fibrinogeno nel plasma, mentre per i livelli di allarme si può
    dire che essi sono ancora nel range classico di normalità e che
    aumenti anche di poche diecine di mg/dL spostano il rischio in
    maniera considerevole.
    La misura del fattore VII, negli studi dove è stata presa in
    considerazione è stata eseguita con metodi coagulatori
    tradizionali. La possibilità che la misura antigenica possa fornire le
    stesse informazioni è ancora dibattuta, come pure la possibilità
    che la misura della sua forma attivata possa essere un indice più
    idoneo di ipercoagulabilità plasmatica. A questo riguardo, bisogna
    anche aggiungere che studi ulteriori sono in corso per valutare la
    predittività di altri marcatori di ipercoagulabilità quali quella del
    frammento 1+2 della protrombina (F 1+2).
    QUANDO EFFETTUARE LE INDAGINI DI LABORATORIO
    Tutte le misure sul plasma di cui abbiamo precedentemente
    parlato, ad esclusione dell'antitrombina e della omocisteina, sono
    influenzate dall'assunzione di anticoagulanti orali, o dalla
    somministrazione di eparina. Unica eccezione è costituita dalla
    resistenza alla proteina C attivata, che può essere misurata anche
    in presenza di anticoagulanti orali, purchè il plasma sia diluito in
    plasma carente di Fattore V prima dell'analisi (21). In tutti gli altri
    casi è importante che l'indagine di laboratorio venga eseguita in
    condizioni basali e preferibilmente lontano dall'evento acuto, che
    potrebbe essere causa di difficile interpretazione del risultato. Nei
    casi in cui la terapia anticoagulante orale si dovesse protrarre
    sine die, l'unica alternativa praticabile è quella di sospendere per
    circa dieci giorni la terapia, in attesa che i fattori vitamina K
    dipendenti tornino ai livelli normali. Durante tale periodo il
    paziente dovrebbe essere sottoposto a profilassi adeguata con
    mezzi alternativi agli anticoagulanti orali (es. eparina a basso
    peso molecolare). I rischi di tale manovra devono comunque
    essere sempre attentamente valutati e le decisioni prese caso per
    caso.
    OGGETTO DELLO SCREENING E CONSIDERAZIONI
    CONCLUSIVE
    Nonostante alcuni dei difetti sopra menzionati siano di frequente
    riscontro anche nella popolazione generale, lo screening di
    laboratorio per la trombofilia venosa non viene di norma eseguito
    nel soggetto sano anche nei casi in cui egli sarà esposto a
    manovre o interventi potenzialmente a rischio trombotico (1,
    14). La possibile eccezione a questa regola, costituita dalla
    ricerca della resistenza alla proteina C attivata nei soggetti da
    sottoporre ad intervento chirurgico, o nelle donne che assumono
    contraccettivi orali, non trova ancora adeguati consensi (14).
    Pertanto, l'indagine di laboratorio deve essere ristretta a quei
    soggetti che hanno avuto uno o più episodi trombotici in età
    giovanile (meno di 50 anni), in particolare (ma non
    esclusivamente)se spontanei. La positività della storia familiare
    può essere considerata, ma non deve costituire elemento
    essenziale per avviare il soggetto allo screening.
    Lo screening di laboratorio per questi pazienti prevede la misura
    dell'antitrombina, proteina C, proteina S, il test per valutare la
    resistenza alla proteina C attivata e l'analisi del DNA per la
    identificazione della mutazione della protrombina (Tabella 1) .
    Ulteriori accertamenti quali la valutazione della fibrinolisi, la
    misura del co fattore eparinico II e la ricerca delle
    disfibrinogenemie, possono essere intraprese nei casi più
    suggestivi, tuttavia, è bene ricordare che il loro ruolo nella
    trombosi ereditaria non è mai stato definitivamente comprovato
    (fibrinolisi e deficit di co fattore eparinico II), oppure i difetti
    sono di evenienza assai rara (disfibrinogenemia). Oltre allo
    screening per i deficit congeniti, bisogna anche indagare il
    paziente trombofilico per accertare la presenza degli anticorpi
    antifosfolipidi e per valutare i livelli di omocisteinemia
    (Tabella 1) . Eventuali anomalie, riscontrate con i test su
    plasma debbono essere attentamente valutate per escludere
    deficit acquisiti degli anticoagulanti naturali (es. in seguito ad
    epatopatia) e confermate su un secondo prelievo a distanza di
    uno-due mesi.
    Nei casi di positività per uno o più difetti ereditari, bisogna
    estendere lo studio di laboratorio a tutti i membri della famiglia
    disponibili all'indagine, anche se asintomatici.
    Poichè il rischio nel singolo paziente dipende dal numero dei
    difetti sia genetici che acquisiti di cui egli è portatore, è
    importante che l'indagine di laboratorio prenda in considerazione
    tutti i fattori di rischio.
    Il paziente e i suoi familiari portatori del difetto, anche se
    asintomatici, debbono essere adeguatamente informati circa i
    rischi che la loro condizione comporta ed invitati a concordare
    con il medico del Centro le misure profilattiche adeguate a
    ridurre il rischio in occasione di esposizione ad eventi
    scatenanti (chirurgia, gravidanza, contraccetivi orali,
    immobilizzazioni, ecc.).
    Infine, per quanto riguarda la trombosi arteriosa, i fattori di
    rischio identificabili dal laboratorio di emostasi sono oltre al
    fibrinogeno e al Fattore VII, la presenza degli anticorpi
    antifosfolipidi e della iperomocisteinemia, ambedue associate
    anche ad eventi di tipo arterioso. Sebbene lo studio dei fattori di
    rischio per trombosi venosa non abbia documentato una
    convincente associazione fra questi ultimi e la trombosi arteriosa
    (22), sporadiche osservazioni su pazienti con carenza congenita di
    antitrombina, proteina C, o proteina S suggeriscono che in casi del
    tutto particolari (ad es. soggetti molto giovani con storia di
    infarto del miocardio, in assenza di fattori di rischio e coronarie
    integre) si possa allargare lo screening, includendo le indagini per
    i fattori di rischio di trombofilia venosa. Secondo recenti studi la
    mutazione del Fattore V Leiden e della protrombina potrebbero
    essere ambedue fattori di rischio per infarto del miocardio nelle
    giovani donne fumatrici (23, 24). Tuttavia, la necessità di eseguire
    la ricerca delle mutazioni in tale contesto richiede ulteriori
    approfondimenti.
    RACCOMANDAZIONI
    Per lo screening del paziente trombofilico valgono le seguenti
    racommandazioni.
    L'indagine di laboratorio si esegue solo sui soggetti che hanno
    avuto almeno un episodio di trombosi, con o senza familiarità.
    L'età dei soggetti da avviare allo screening è generalmente
    inferiore ai 50 anni.
    Prima dello screening bisogna escludere eventuali cause che
    possano spiegare la trombosi (neoplasie).
    Eseguire lo screening secondo i test consigliati per la trombofilia
    venosa e arteriosa (Tabella 1).
    L'indagine di laboratorio deve essere eseguita lontano dall'episodio
    acuto (1-2 mesi) e in assenza di anticoagulanti orali e/o eparina.
    I riscontri diagnostici positivi debbono essere confermati in una
    occasione successiva e dopo aver escluso eventuali cause
    acquisite di carenza (ad es. epatopatia).
    Estendere sempre l'indagine ai familiari del probando anche se
    ancora asintomatici.
    I portatori del difetto debbono essere adeguatamente informati
    circa i rischi che la loro condizione comporta ed invitati a riferirsi
    al Centro in occasione di esposizione ad eventi scatenanti
    (chirurgia, gravidanza, contraccetivi orali, immobilizzazioni,
    ecc.).
    BIBLIOGRAFIA
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    Factor V Leiden (Resistance to activated protein C) increases the
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    24. Rosendaal F.R., Siscovick D.S., Schwartz S.M., Psaty B.M.,
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    A common prothrombin variant (20210 G to A) increases the risk
    of myocardial infarction in young women.
    Blood, 1997 ; 90: 1747.

    Fonte:

    www.siset.org/lineeguida/all_pdf/trombofilici.pdf


    mutazione genetica e MTHFR: significato clinico
    Numerosi dati clinici riportano l’iperomocisteinemia come fattore di rischio per
    infarto miocardico, ictus cerebrale, vasculopatia periferica e trombosi.
    Genetica Medica
    Il deposito sulla parete vasale di omocisteina, in seguito a mutazioni dell’ MTHFR,
    risulta lesivo sia mediante un’azione diretta sull'endotelio e sulla parete vasale, sia
    attraverso un’azione sui fattori della coagulazione, sulle lipoproteine e sulle
    piastrine, con un aumento, in quest’ultimo caso, della adesività e della
    aggregabilità piastrinica.
    Metionina e Omocisteina sono due intermedi del ciclo del gruppo metilico
    attivato. La metionina viene prima attivata a S-adenosil-metionina e poi convertita
    ad S-adenosil-omocisteina in seguito al trasferimento di un gruppo metile ad un
    accettore; per idrolisi si arriva infine alla formazione dell’omocisteina. La
    metionina può essere ricostituita mediante il trasferimento di un gruppo metilico
    all’omocisteina da parte dell’N5-metiltetraidrofolato, a sua volta rigenerato dalla
    metilen-tetraidrofolato-reduttasi (MTHFR). Un ridotto livello di enzima MTHFR
    porta ad un deficit di N5-metiltetraidrofolato, quindi ad una minore disponibilità
    di gruppi metili necessari per la conversione a metionina dell’omocisteina, con un
    accumulo di quest’ultima.

    fonte.http://www.biodiv.it/umana/imm/TROMBOFILIA%20def.pdf


    Edited by Apocalypse23 - 15/4/2010, 23:34
     
    .
  2. gulio
     
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    Noi siamo a rischio maggiore.
    Non ricordo dove ma ho letto che i pazienti con malattie croniche degenerative hanno valori alti e sono molto pù a rischio.
    se lo trovo ve lo dico.
     
    .
  3. Apocalypse23
     
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    ma certo che sì INFIAMMAZZIONE CARO GULIO:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::


    e tante altri cofattori scatenati da ......vedi sopra.
     
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  4. Guapleaugmept
     
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    Greetings all! I am new in the forum. Just want to greet you all :)
     
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  5. Apocalypse23
     
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    you are welcome .........!!!. :D
     
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4 replies since 15/4/2010, 22:18   3442 views
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