le micotossine e il cancro dott.A cura del Dott. Pietro Giuffrida

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    http://www3.unict.it/dfsc/micotossine.htm


    Micotossine e cancro


    A cura del Dott. Pietro Giuffrida



    Le micotossine rappresentano un gruppo eterogeneo di sostanze chimiche, per lo più a basso peso molecolare, prodotte dal metabolismo secondario dei miceti e tossiche per l’animale e per l’uomo. In conseguenza della loro azione lesiva sulle funzioni cellulari, alcune esplicano azione nefrotossica (ocratossine), epatotossica (aflatossine), immunotossica (aflatossine, ocratossine), mutagena (aflatossine), teratogena (ocratossine) e cancerogena (aflatossine, ocratossine, fumonisine). Sono molto resistenti al calore e non vengono completamente distrutte dalle normali operazioni di cottura, né dai diversi trattamenti a cui vengono normalmente sottoposte le derrate durante i processi di preparazione degli alimenti. Pertanto, le stesse micotossine o loro derivati ancora attivi possono persistere dopo la morte del micete ed essere presenti anche quando il prodotto stesso non appare ammuffito.

    La loro possibile presenza in molti alimenti costituisce oggi un motivo di crescente preoccupazione per la salute dei consumatori. La loro contaminazione è influenzata ampiamente dalle condizioni climatiche e geografiche, dalle pratiche di coltivazione e di conservazione, e dal tipo di substrato interessato, in quanto alcuni prodotti sono più suscettibili rispetto ad altri alla crescita fungina. Le micotossine si sviluppano sia sulle piante prima del raccolto (contaminazione da campo) che nelle derrate vegetali dopo il raccolto stesso, durante i processi di conservazione (in magazzini, silos, ecc.), trasformazione e trasporto. Gli alimenti più esposti alla contaminazione diretta sono soprattutto cereali (mais, frumento, riso, orzo, segale, ecc.), semi oleaginosi (arachidi, girasole, semi di cotone, ecc.), frutta secca ed essiccata, legumi, spezie, caffè e cacao. Inoltre, le micotossine possono essere ritrovate come residui o metaboliti tossici nei prodotti alimentari che derivano da animali alimentati con mangimi contaminati, costituendo un tipo di contaminazione indiretta (carry over) per l’uomo di rilevanza considerevole a causa degli elevati livelli di micotossine potenzialmente presenti nei cereali destinati alla produzione di mangimi vegetali.

    L’impatto delle micotossine sulla salute dipende dalla quantità di micotossina assunta con gli alimenti, dalla tossicità del composto, dal peso corporeo dell’individuo, dalla presenza di alre micotossine e da fattori dietetici. Per stabilire un rapporto di causalità tra l’ingestione di micotossine e una specifica malattia umana devono essere soddisfatti alcuni criteri: presenza di micotossine negli alimenti; accertata esposizione alle micotossine; correlazione fra esposizione e incidenza di una determinata malattia; riproducibilità dei caratteristici sintomi negli animali da esperimento; simile modalità di azione nell’uomo e nei modelli animali.

    Gli effetti provocati dalle micotossine sulla salute dell’uomo e degli animali sono noti da tempo. Nel XIX secolo fu chiarita l’associazione tra ingestione di segale contaminata da Claviceps purpurea e comparsa di ergotismo. Successivamente fu descritta una sintomatologia tossica dell’uomo dovuta all’ingestione di pane ottenuto con frumento infestato da Fusarium graminearium. Negli anni 1942-47, diversi villaggi rurali della Russia furono colpiti dalla leucopenia tossica alimentare (Alimentary Toxic Aleukia, ATA) causata dal consumo di frumento e di miglio contaminati da Fusarium sporotrichiodes e F. poae.

    Il duplice aspetto sanitario ed economico delle micotossine fu pienamente rilevato nella sua importanza solo a partire dal 1960, anno in cui in Inghilterra si ebbe la comparsa della malattia X del tacchino (turkey X disease) causata da una partita di farina di arachidi contaminata da una tossina prodotta da Aspergillus flavus, l’aflatossina, che provocò la morte di numerosi tacchini, ma anche di anatroccoli, suini e bovini.

    I dati ottenuti da studi condotti su animali indicano che il consumo di alimenti contaminati da micotossine può produrre nell’uomo un’ampia varietà di quadri patologici sia acuti che cronici, di difficile diagnosi, che possono avere origine sin dai primi mesi di vita dei soggetti coinvolti.

    Attualmente, le micotossine note sono numerose, anche se, nella maggior parte dei casi si tratta di metaboliti fungini tossici studiati in laboratorio che hanno una scarsissima probabilità di essere ritrovati come contaminanti naturali. In effetti, solo alcune sono state finora trovate nelle derrate alimentari e di esse solo pochissime sono state inconfutabilmente associate a micotossicosi.

    Comunque, si ha ragione di ritenere che il numero di micotossine riscontrabili nei prodotti contaminati possa aumentare con il perfezionamento dei metodi di analisi chimica che già oggi per alcune micotossine consentono di stimare presenze dell’ordine di parti per bilione (ppb = ng/g) e, in alcuni casi, di parti per trilione (ppt = ng/Kg).

    Verranno qui prese in esame le micotossine più importanti coinvolte nei processi di cancerogenesi: aflatossine, zearalenone, ocratossine e fumonisine.



    Le aflatossine, ritenute a ragione le micotossine per eccellenza, sono state oggetto delle ricerche più approfondite e ancora oggi destano le maggiori preoccupazioni in quanto contaminanti dell’alimentazione di larga parte della popolazione mondiale che vive nelle fasce tropicali dove le caratteristiche del clima e la pressochè totale assenza di refrigerazione, facilitano la crescita delle muffe produttrici.

    Esse sono prodotte esclusivamente da alcuni ceppi di Aspergillus flavus e da quasi tutti i ceppi di Aspergillus parasiticus. Chimicamente sono dei derivati della cumarina e vengono denominate con le sigle B1, B2 (rispettivamente metossi-difuro-cumarone e metossi-difuro-cumaro-lattone), G1, G2 (loro diidroderivati), M1, M2 (metaboliti idrossilati rispettivamente di B1 e B2 che si riscontrano nel latte di lattifere alimentate con mangimi contaminati da aflatossine B1 e B2).

    Le lettere B e G corrispondono al tipo di fluorescenza che queste micotossine emettono se irradiate con luce ultravioletta di 360 nm (Blue o Green), mentre la lettera M è l’iniziale del prodotto idrossilato che viene ritrovato nel latte (Milk = latte).

    Sono essenzialmente delle epatotossine dotate anche di attività cancerogena (1 ppb di aflatossina B1 nella dieta della trota è sufficiente per causare il cancro del fegato), mutagena e probabilmente teratogena. Tra esse la più potente è la B1 che per questo è stata oggetto di molte approfondite ricerche.

    Essa è altamente tossica per somministrazione acuta in tutte le specie studiate, con una DL50 oscillante tra 0,5 mg/Kg per l’anatroccolo e 60 mg/Kg per il topo; per l’uomo la dose mortale di aflatossina B1 oscilla tra 0,6 e 10 parti per milione (ppm = mg/Kg).

    Le aflatossine sono assorbite nel tratto gastrointestinale dove vengono o attivate metabolicamente o detossificate nella mucosa intestinale e nel fegato. La biotrasformazione della AFB1 varia molto da specie a specie ed è largamente influenzata da fattori endogeni ed esogeni. Tale biotrasformazione avviene attraverso processi di epossidazione, ossidrilazione, O-demetilazione, coniugazione e processi non enzimatici. In particolare, l’AFB1 subisce un’ossidazione, dipendente dal citocromo P-450 che porta sia a vari metaboliti ossidrilati, sia all’8,9-epossido, elettrofilo instabile e altamente reattivo dal punto di vista biologico che forma addotti covalenti con DNA (soprattutto AFB-N7-guanina), RNA e proteine.

    Mentre la formazione di addotti con il DNA è responsabile dell’attività cancerogena, la reazione tra l’epossido e le proteine potrebbe essere responsabile della tossicità acuta di questa tossina.

    Nell’uomo c’è un’ampia variazione interindividuale per quanto concerne l’attivazione metabolica dell’aflatossina B1 e in studi recenti furono trovati addotti al DNA dell’aflatossina B1 in campioni di placenta umana e cordone ombelicale in Taiwan, un’area che presenta un’alta incidenza di cancro epatico.

    Un importante meccanismo di detossificazione dell’8,9-epossido dell’AFB1 è la formazione del suo derivato con il glutatione, mediata dall’enzima glutatione S-transferasi; l’attività di questo enzima varia molto nelle differenti specie animali e questo è attualmente ritenuto il motivo delle enormi differenze di suscettibilità a questa tossina da parte delle varie specie animali studiate. Infatti, l’AFB1 è altamente epatocancerogena nel ratto, in misura meno apprezzabile in diverse altre specie, inclusi i primati non umani, mentre il topo adulto ne è completamente resistente in quanto produce quantità elevate di GSH S-transferasi che fornisce una via selettiva di detossificazione per l’epossido reattivo.

    Elevate quantità fino 10 ppm, somministrati con la dieta, non producono cancro nel topo, mentre nel ratto sono sufficienti dosi di 0,015 ppm per produrre un aumento significativo di epatocarcinoma. Il topo diventa sensibile agli effetti dell’aflatossina B1 se viene trattato con agenti che riducono i livelli tessutali di GSH; per contro il trattamento del ratto con agenti capaci di indurre la GSH S-transferasi, come l’etossichina, l’oltipraz (farmaco utilizato negli anni ’80 contro la schistosomiasi) e il fenobarbitale, protegge l’animale dall’azione tossica ed epatocarcinogena dell’aflatossina.

    Studi di laboratorio sugli animali hanno dimostrato che la formazione degli addotti aflatossina-DNA e il conseguente tumore al fegato possono essere inibiti dalla somministrazione dell’oltipraz. In Cina è stato avviato un programma di prevenzione dell’epatocarcinoma basato sulla vaccinazione contro l’epatite da vius B e la somministrazione dell’oltopraz. L’enzima GSH S-transferasi è presente nella maggior parte dei tessuti e ha una più alta concentrazione nel fegato, nell’intestino, nel rene, nei testicoli, nel surrene e nei polmoni. Ha una localizzazione prevalentemente citoplasmatica (>95%) e solo in piccola misura è localizzato nel reticolo endoplasmatico. I suoi substrati hanno in comune le caratteristiche di essere molecole idrofobiche, di contenere un atomo elettrofilo e di essere in grado di reagire efficacemente con il GSH (tripeptide costituito da glicina, cisteina e acido glutammico). La coniugazione con il GSH è un processo di detossificazione importante, in quanto i substrati elettrofili che vengono neutralizzati per combinazione con esso sono specie tossiche capaci di legare molecole nucleofile come le proteine e gli acidi nucleici, causando così mutazioni e altri danni cellulari. È stato visto che le cellule epatiche umane in coltura esposte all’azione dell’aflatossina presentano un danno a carico del gene soppressore p53 e diversi studi sul cancro del fegato umano hanno dimostrato anche che il gene soppressore p53 è più frequentemente mutato in quelle aree dove maggiore è l’esposizione all’azione dell’aflatossina.

    L’AFB1 e i relativi derivati potrebbero essere responsabili di neoplasie epatiche e di epatiti tossiche riscontrate in varie parti dell’Africa e dell’estremo Oriente. Sia l’etanolo sia l’infezione da HBV potenziano l’azione epatotossica e epatocarcinogena. A tal proposito c’è da dire anche che l’aflatossina acuta, accompagnata da infezione cronica HBV, sarebbe la leva che converte il danno al fegato dovuto all’HBV in carcinoma epatocellulare (ciò è confermato da studi epidemiologici).

    Per quanto riguarda l’etanolo, il meccanismo più probabile sembra essere l’induzione del citocromo P450; il che porta a un’aumentata produzione di metabolici reattivi.

    Altro enzima in grado di catalizzare la trasformazione dell’AFB1 nell’8,9-epossido è la prostaglandina H-sintasi (PHS). Nel ratto l’AFB può anche causare neoplasie delle papille renali. A tale livello il contenuto del citocromo P450 è estremamente basso, mentre vi sono quantità alquanto elevate di PHS che si ritiene dunque possa avere un ruolo negli effetti nefrotumorigeni delle aflatossine.

    Per quanto riguarda l’escrezione dell’AFB1, una frazione della tossina viene eliminata attraverso il tratto intestinale, ma le principali vie di escrezione sono rappresentate da quella biliare (in forma di AFB1-glutatione) e urinaria (come aflatossina M1 e aflatossina B1-N7-guanina). Anche il latte è una via di escrezione dell’AFB1 (come AFM1), costituendo in tal modo a causa della rilevante tossicità di questo metabolita una potenziale fonte di assunzione per i giovani organismi durante la fase della lattazione.

    Le aflatossicosi possono manifestarsi sia come malattie acute con improvviso decesso dei soggetti più colpiti, sia come malattie croniche. Casi di aflatossicosi sono tuttora ricorrenti in allevamenti di specie aviarie, suini, bovini, conigli, cani, pesci e animali da pelliccia.

    Comunque, in considerazione delle concentrazioni di aflatossine che normalmente si ritrovano nei mangimi, appare evidente che le aflatossicosi sub-acute, anche se meno drammatiche che quelle acute, sono molto più diffuse e economicamente più importanti.

    I quadri clinici dipendono dall’età dell’animale, dal sesso, dallo stato di salute generale, dalla dose e dal tempo di esposizione alla micotossina.

    Gli animali più giovani sono sempre molto più colpiti rispetto agli adulti e i mammiferi poligastrici sono nell’insieme più resistenti dei monogastrici (per l’azione detossicante operata da batteri e protozoi). I segni dell’intossicazione da aflotossina sono stati studiati sia dopo intossicazione naturale sia in esperimenti di laboratorio. L’intossicazione acuta in genere si manifesta con grave apatia, perdita dell’appetito, febbre più o meno elevata e morte dell’animale in tempi varianti a seconda della sensibilità specifica. Generalmente, il fegato appare pallido, aumentato di volume con necrosi del parenchima. I reni possono presentare delle lesioni da glomerulonefrite, mentre a livello polmonare si osservano fenomeni congestizi.

    I danni legati all’intossicazione cronica sono di tutt’altro ordine. I segni più visibili consistono in inappetenza, rallentamento della crescita accompagnato da perdita di peso; ma è il fegato che risente maggiormente dell’attività tossica: esso risulta congestionato e presenta delle zone emorragiche e necrotiche e, quando l’intossicazione è prolungata, si manifestano processi cancerogeni. I reni sono congestionati e occasionalmente si può osservare enterite emorragica. Inoltre, compaiono stato depressivo e disturbi nervosi, quali incoordinazione motoria, perdita di equilibrio e spasmi muscolari.

    Anche l’impatto dell’aflatossina sulla salute umana è tutt’altro che trascurabile. In mancanza di dati tossicologici diretti, il rischio per l’uomo viene attualmente valutato essenzialmente in maniera indiretta, a partire sia dalla tossicologia animale sia dall’analisi statistica di dati epidemiologici relativi a popolazioni a rischio. Sono stati finora accertati almeno otto eventi epidemiologici di aflatossicosi acute dell’uomo. In uno di essi, verificatosi nell’India occidentale e associato al consumo di mais contaminato mediamente da 2 ppm di aflatossina B1 sono stati registrati 400 casi di epatite cronica di cui 100 con esito mortale. Inoltre, gli studi epidemiologici condotti sulle popolazioni a rischio dell’Africa centro-meridionale (Kenia, Monzambico) e della Tailandia hanno chiaramente indicato l’esistenza di una correlazione positiva tra ingestione di aflatossine con la dieta e incidenza del cancro del fegato. Le aflatossine sono state trovate anche in preparati di biopsia di fegato di bambini sudanesi affetti da epatiti croniche, nonché nel latte materno di donne sudanesi.

    Il cancro primario del fegato è soprattutto una malattia delle popolazioni giovani delle regioni tropicali e subtropicali, mentre è relativamente raro in Europa e in America del Nord. Casi indiscussi di fibrosi epatica sono stati constatati nell’uomo dopo una contaminazione prolungata di farine contaminate da A. flavus.

    In Italia il problema delle aflatossine è strettamente legato all’importazione di alimenti contaminati provenienti dalle aree tropicali e subtropicali. Infatti, le condizioni ambientali e tecnologiche italiane non sono tali da far temere per manifestazioni epidemiologiche di una qualche entità.

    Tra i prodotti importanti risultano particolarmente contaminati le arachidi, il mais e la manioca che, come è noto trovano larghissimo impiego nell’alimentazione del bestiame. La probabilità di introdurre un prodotto contaminato è maggiore per quei paesi che notoriamente non esercitano un regolare controllo delle importazioni e verso i quali vengono indirizzate le partite più contaminate, magari già rifiutate da altri.

    La comunità europea è orientata a porre un limite di 4 ppb di aflatossine per gli alimenti umani, mentre per quanto concerne l’alimentazione animale la concentrazione massima attualmente ammessa è di 50 ppb nei mangimi per vitelli, agnelli, pollame e suini. Per i bovini da latte il limite è di 10 ppb.

    I metodi più frequentemente utilizzati per l’analisi delle aflatossine sono l’HPLC, l’ELISA e la TLC.



    Gli zearalenoni sono prodotti da diverse specie di Fusarium e in particolare da F. graminearum, F. gulmorum e F. equiseti. Dei diversi metaboliti prodotti in coltura, solo lo zearalenone e gli zearalenoli (isomeri alfa e beta) sono stati ritrovati negli alimenti di origine vegetale, come contaminanti naturali.

    Lo zearalenone è un lattone dell’acido resorcilico non dotato di tossicità acuta che a basse concentrazioni manifesta attività anabolica e uterotrofica, mentre a concentrazioni più alte determina attività di tipo estrogeno.

    Le specie animali più sensibili all’azione della tossina sono quella bovina e, soprattutto, quella suina in cui provoca ipofertilità già a partire da concentrazioni di zearalenone nella razione alimentare di 10 ppb e segni di iperestrogenismo (tumefazioni e arrossamento della vulva, iperplasia della ghiandola mammaria, estro prolungato) a concentrazioni non inferiori a 1-5 ppm. Si possono osservare, inoltre, vaginiti, ridotta assunzione degli alimenti, ridotta produzione di latte, blocco dell’ovulazione e aborti e, persino, ninfomanie (a dosi più elevate).

    Dati recenti indicherebbero un’attività cancerogena dell zearalenone (aumento nel topo di tumori ipofisari e epatici), nonché un suo passaggio nel latte. I prodotti più soggetti alla colonizzazione di specie tossigene di Fusarium e all’accumulo di zearalenone sono essenzialmente i cereali e, in paricolare, il mais, il frumento, il sorgo, l’orzo e l’avena.

    In Italia la tossina si trova con relativa frequenza sia nel mais di produzione nazionale sia in quello importato (ex Iugoslavia, Argentina, USA).



    Le ocratossine sono un gruppo di metaboliti strutturalmente simili, prodotti da funghi del genere Aspergillus e Penicillium, in particolare da A. ochraceus e da P. viridicatum. Quelle attualmente conosciute sono l’ocratossina A (OA) e la B (OB) e delle due quella più tossica è la “A” la cui DL50 per l’anatroccolo di un giorno va da 25 a 150 microgrammi.

    Dal punto di vista chimico l’OA è costituita da un derivato cumarinico legato alla fenilalanina, mentre l’OB consiste nell’analogo senza un atomo di cloro. La biotrasformazione dell’OA è dipendente dal citocromo P450 sia nell’uomo sia negli animali e porta alla formazione di intermedi metabolicamente attivi probabilmente responsabili dell’azione cancerogena e di altri effetti tossici. Il suo assorbimento avviene nel tratto gastrointestinale e, attraverso la circolazione entero-epatica, può essere escreta e riassorbita.

    Nel sangue l’OA è legata alla frazione albuminica delle proteine e questa sembra essere la motivazione per cui questa micotossina permane per tempi lunghi nell’organismo animale.

    A livello cellulare inibisce il trasporto intramitocondriale del fosfato e la sintesi proteica a livello della translazione mediante il blocco della fenilalanina RNA sintetasi.

    Il principale organo bersaglio dell’OA è il rene, ma per dosi sufficientemente elevate si ha tossicità anche a livello epatico con infiltrazione grassa e accumulo di glicogeno negli epatociti (per blocco del sistema enzimatico delle fosforilasi).

    Nei ratti la somministrazione ripetuta di piccole dosi di ocratossina produce lesioni del tubulo prossimale che comportano proteinuria, glicosuria, chetonuria, poliuria e riduzione del trasporto tubulare prossimale di ioni organici.

    La somministrazione di una singola forte dose provoca una diarrea grave e la morte dell’animale, con gli ovvi effetti sul rene. Le stesse alterazioni si osservano anche in altre specie animali. Nel maiale ricorre con carattere endemico in Danimarca e in Scandinavia una malattia renale, nota come nefropatia micotossica dei suini che è stata anche recentemente segnalata in altri nove paesi. Tale malattia, associata all’impiego di mangimi contaminati da OA, sia per gli aspetti tossicologici, sia per quelli epidemiologici, ha molte analogie con una malattia renale dell’uomo, nota come nefropatia balcanica (balkan endemic nephropaty o BEN) che colpisce con carattere endemico alcune popolazioni rurali della Bulgaria, della Romania e della ex Iugoslavia.

    La BEN è una nefropatia bilaterale cronica non infiammatoria che si manifesta dopo circa 15 anni di permanenza in una delle regioni endemiche ed è caratterizzata da disfunzioni tubulari prossimali con proteinuria e lenta progressione verso l’insufficienza renale.

    Dal punto di vista anatomopatologico i reni si presentano ridotti di peso e di grandezza e con una diffusa fibrosi corticale. Nelle aree endemiche la nefropatia si associa a una maggiore frequenza di tumori del tratto urinario e, anche se non vi sono prove dirette, si ha ragione di ritenere che la suddetta malattia renale sia legata al consumo di prodotti zootecnici provenienti dagli allevamenti contaminati. In effetti, l’OA si ritrova con frequenza anche in elevate concentrazioni nel sangue e nella carne di maiali colpiti da ocratossicosi cronica. A questo riguardo in Danimarca è in vigore un limite di tolleranza di 25 ppb di OA nella carne di maiale, mentre in Germania il limite massimo negli alimenti è di 3 ppb e in molti altri paesi detto limite deve essere ancora stabilito.

    Oltre all’azione nefrotossica è riportata per questa tossina un’azione teratogena e immunosoppressiva.

    Tra i prodotti che con più frequenza vengono trovati contaminati vi sono l’orzo, il sorgo, il mais, diversi legumi, il caffè crudo in grani (la tostatura denatura le ocratossine) e vari prodotti da forno; ma più preoccupante è la presenza di OA nei mangimi.

    Il comitato scientifico per l’alimentazione umana (SFC o Scientific Committee for Food) ha recentemente tratto la conclusione che per l’OA l’esposizione giornaliera non dovrebbe essere superiore a valori di pochi ng/Kg peso corporeo/giorno. I principali metodi di analisi utilizzati per la rivelazione dell’OA sono l’HPLC con rivelazione fluorimetrica (limite di determinazione 0,1 mg/Kg), la TLC e l’ELISA.



    Le fumonisine sono un gruppo di sostanze strutturalmente correlate prodotte principalmente dalla specie Fusarium moniliforme e F. proliferatum, sebbene anche altre specie ne siano potenzialmente produttrici. Chimicamente le fumonisine sono diesteri dell’acido tricarballilico e polialcoli e, pertanto, caratterizzati da una struttura molto simile a quella della sfingosina precursore chimico di tutti gli sfingolipidi (sfingomieline, ceramidi e gangliosidi) che esplica un importante ruolo in numerose funzioni cellulari, a livello di crescita, di differenziazione cellulare e di trasmissione degli impulsi nel sistema nervoso.

    Anche le fumonisine, come la gran parte delle altre micotossine, sono dotate di una non trascurabile termostabilità. Infatti, la distruzione della struttura molecolare può ottenersi solo a seguito di esposizione termica a temperature non inferiori a 220 °C.

    La fumonisina B1 inibisce un enzima chiave del metabolismo degli sfingolipidi noto come N-acil-transferasi che è implicato nella conversione della sfingosina e sfingamina a ceramidi che vengono successivamente trasformati a sfingolipidi complessi.

    La potente azione inibente delle fumonisine sulla sintesi degli sfingolipidi sembra essere alla base degli effetti tossici provocati da queste sostanze e della loro attività cancerogena per perdita da parte della sfingosina della funzione di agente antitumorale endogeno.

    Gli studi condotti su queste micotossine hanno evidenziato una tossicità molto differente nelle diverse specie animali. Negli equini sono responsabili della comparsa di una sindrome neurotossica nota come leucoencefalomalacia, malattia risultanta in una necrosi liquefattiva della materia bianca del cervello che si manifesta con sonnolenza, paralisi facciale e cecità.

    Le fumonisine sono anche epatotossiche, come dimostrato dalle epatosi acute e dal carcinoma epatocellulare indotti nei ratti a seguito della somministrazione di queste tossine.

    Sempre nei ratti esse esplicano anche azione nefrotossica con la comparsa di diverse alterazioni quali l’interruzione della membrana basocellulare, rigonfiamento mitocondriale e comparsa di cellule con citoplasma opaco. Inoltre danneggiano il sistema immunitario e nelle anatre e nei suini provocano edema polmonare.

    Taluni autori hanno descritto un’azione tossica della fumonisina B1 a livello del muscolo cardiaco e, in particolari prove sperimentali effettuate sulla rana, hanno evidenziato un blocco nel flusso degli ioni calcio, con conseguente arresto dell’attività cardiaca.

    Anche per l’uomo ci sono indizi di cancerogenicità; in particolare, il consumo di cereali contaminati da fumonisina potrebbe essere all’origine di un’elevata incidenza di cancro all’esofago in certe zone del Sud-Africa, della Cina e forse anche del Nord-Est d’Italia.



    La maggior parte delle informazioni riguardanti le micotossine e le micotossicosi ci pervengono dalla medicina veterinaria.

    Recenti osservazioni condotte sugli allevamenti zootecnici, sugli animali di laboratorio e su alcune popolazioni a rischio hanno dimostrato l’esistenza di un reale pericolo anche per l’uomo. Pertanto, le micotossine rappresentano un fattore di rischio alimentare poco conosciuto e forse sottovalutato.

    La loro presenza negli alimenti può essere notevolmente contenuta soprattutto operando un più capillare controllo delle importazioni dei prodotti provenienti dalle aree geografiche più soggette a contaminazioni (aree tropicali – subtropicali, paesi del nord Europa, USA) e migliorando la sanità dei mangimi.

    A tal proposito, ricordiamo che spesso prodotti agricoli contaminati vengono indirizzati verso le industrie mangimistiche dove avviene il loro stoccaggio e la loro trasformazione in mangimi.

    L’industria mangimistica considera come materie prime proprio quei prodotti finiti dell’agricoltura che sono a maggior rischio di contaminazione come mais, grano, orzo, soia, etc.

    Oltre ad essi, un ruolo importante viene ricoperto dai prodotti secondari delle altre industrie di trasformazione che hanno un alto valore biologico per l’alimentazione degli animali (prodotti dell’estrazione degli oli dai semi oleosi quali farina di arachidi, di girasole, di soia, di mais, etc.).

    Per quanto concerne il rischio tossicologico associato all’ingestione di cibo contaminato da micotossine, in molti paesi sono state emanate apposite leggi che fissano i livelli massimi di contaminazione da aflatossine dei prodotti destinati all’alimentazione umana e animale.

    Purtroppo, solo in pochi paesi sono previsti dei limiti anche per le altre micotossine (ocratossina, patulina, zearalenone, deossinivalenolo, fumonisine B1-B2, tossina T2).

    Pertanto è auspicabile che tutte le nazioni fissino in modo univoco i limiti di tolleranza per le micotossine di indubbia pericolosità per la salute umana e animale.



     
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